Per prima cosa da Khiva raggiunsi Urgench con un taxi. Ad Urgench capitai ad un incrocio dove alcune persone, che parlavano solo tagiko, uzbeko o russo, organizzavano taxi collettivi non autorizzati con destinazione Bukhara. Le automobili partivano solo se al completo, con un guidatore e 4 passeggeri stipati con tutti i bagagli. Ero solo e pertanto dovevo cercarmi dei compagni di viaggio. Non attesi molto: una inconsueta coppia austro-peruviana (lei di Vienna, lui di Lima) mi chiese di fare il tragitto con loro e dividere il prezzo del taxi. Accettai volentieri e così per 20 dollari americani riuscii ad assicurarmi un biglietto per Bukhara. Il viaggio, lungo i 450 chilometri di strada accidentata che corre al confine con il Turkmenistan in piena zona desertica, fu lungo e faticoso. Per fortuna con i miei compagni di viaggio parlammo di vari argomenti (cosa che non avrei potuto fare né con il taxista né col quinto passeggero che non conoscevano una parola di inglese). Così le quasi otto ore di viaggio trascorsero più velocemente.
Dopo circa 4 ore ci fermammo per una breve sosta in un lurido chiosco in mezzo al nulla per rifocillarci con un boccone di pane e una bibita fresca. Faceva molto caldo. Si viaggiava senza aria condizionata, con lo zaino sulle gambe e con i finestrini aperti, respirando la polvere e la sabbia che si levavano dalla strada, in molti punti completamente sterrata. Il guidatore teneva la musica techno-russa ad alto volume. Nonostante tutto ad un certo punto riuscii ad addormentarmi, forse per un’ora.
Verso metà pomeriggio raggiunsi Bukhara dove avrei soggiornato per tre notti. Mi resi subito conto di quanto fosse differente dalla silenziosa e piccola Khiva. Bukhara è una città molto turistica, piena di alberghi, bazar e negozi di tappeti, con un centro storico immenso formato da decine e decine di edifici storici perfettamente (e forse troppo) restaurati.
Impiegai due interi giorni per visitare il centro storico di Bukhara. Per prima cosa la zona più famosa: il minareto Kalon e la moschea, le medresse, i bazar coperti, la piazza Lyabi-Hauz con la sua vasca e i suoi ristoranti, la sinagoga ebraica. Il secondo giorno lo dedicai alla visita della parte più occidentale della città, quella che inizia alla fortezza Ark, procede verso la moschea di Bolo-Hauz (nelle cui vicinanze sorge una torre dell’acqua di costruzione sovietica, completamente in metallo) e termina all’interno dello sciatto parco Samani con i suoi mausolei del XVI secolo, le sue statue moderne di stampo sovietico, la ruota panoramica arrugginita e le sue piante un po’ seccate dal caldo.
La sera cenai sempre nel ristorante in piazza Lyabi-Hauz, degustando zuppe e spiedini di carne e bevendo la solita birra tiepida, questa volta a bassa gradazione.
La visita di Bukhara terminò al Char-Minar, la bellissima costruzione con quattro torri a cupola, raccolta all’interno di un dedalo di viette nella parte meno turistica della città. Furono alcuni bambini a condurmi lì, non prima di aver tentato di farmi perdere tra i vicoli di Bukhara per spillarmi, forse, una piccola mancia.
Tornai in albergo esausto. Il giorno dopo dovevo raggiungere Samarcanda con un taxi collettivo: ormai però sapevo come funzionava la faccenda. Era sufficiente recarsi alla stazione dei bus a nord della città ed aspettare che i tassisti organizzassero le varie autovetture a seconda delle destinazioni dei passeggeri. In pratica si sarebbe trattato solo di aspettare, ed io non avevo alcuna fretta.
(3262 views)